Antonio Mari

D’altronde parlare di queste cose, a distanza di tanti anni, è sempre un fatto molto soggettivo, perché mentre in casa mia le possibilità economiche erano piuttosto modeste, in altre case più agiate economicamente, si potevano, forse, fare giochi diversi e con giocattoli veri e diversi.

Altro ricordo della mia fanciullezza (ma questo ricordo non molto lieto l’ho realizzato appieno con il tempo e con l’avanzare dell’età e con l’aiuto dei miei fratelli) fu quando mio padre, visto le difficoltà per poter portare avanti la famiglia composta allora di otto persone, sei figli più mamma, più papà, non potendo trovare lavoro qui perché non aveva la tessera del P.N.F. [ Partito Nazionale Fascista] fece domanda di arruolamento volontario per l’Africa che era in guerra, per poter guadagnare qualche soldo poter mantenere più decorosamente la famiglia. Correva, se non erro, il 1935/36. Così mio padre partì per l’Africa lasciando noi e la mamma che era in attesa del settimo figlio. Dopo qualche anno mio padre ritornò dall’Africa e, proprio per questo suo servizio volontario fatto in Africa, trovò subito lavoro, come muratore, presso il Sanatorio [attuale Ospedale Monaldi] che era in costruzione. All’epoca mezzi di trasporto erano rari pertanto mio padre, per andare e venire dal lavoro ai Camaldoli, era costretto a farsela a piedi attraverso una strada scorciatoia detto la cupa del Campiglione e partendo da casa nostra che era l’ultimo isolato del rione Duca d’Aosta, per via Canzanella, via Consalvo si arrampicava fino a Villanova per detto Campiglione per poi proseguire, forse con qualche mezzo o ancora a piedi, fino ai Camaldoli. Ricordo che i primi tempi di questo duro lavoro, considerando che mio padre non era abituato ad alzare sulle spalle “la cardarella piena di calce”, perché sin dalla giovane età aveva sempre aiutato suo padre nella bottega di vinaio di cui era proprietario, era per mio padre di  grande sofferenza perché si procurò delle enormi piaghe sulle spalle e mia madre, per aiutarlo a sopportare questo tipo di lavoro, gli faceva delle spalline imbottite con ovatta e stoffa  che mio padre metteva sotto il maglione per poter continuare a lavorare. Altro ricordo, ma non so per quale specifica circostanza, io avevo poco più di cinque o sei anni che andammo io, mia madre e gli altri fratelli ad una manifestazione che si svolgeva a Palazzo Reale nel giardino reale e dalle mani del Principe Umberto di Savoia ricevemmo ognuno di noi delle sacche di stoffa nelle quali c’erano alimenti e vettovaglie varie e, se non ricordo male, anche qualche giocattolino. Ricordo che una di queste sacche fu lanciata nelle braccia di uno dei miei fratelli, che era poco più grande di me, dal Principe con un “oplà”, e per il forte impatto mio fratello cadde suscitando l’ilarità dei presenti. Mia madre ebbe anche in quell’occasione un attestato di famiglia numerosa con una mostrina tricolore alla quale erano attaccate sette piccole coccardine sempre tricolori e credo che ebbe anche qualche sussidio in denaro.

Tanti ricordi di vita vissuta mi vengono alla mente, tristi e belli, ma ci vorrebbe tanto tempo per poterli raccontare e il supporto di qualche coetaneo per poter avallare i miei ricordi. Per alcuni di questi ricordi sono stati determinanti i ricordi e i suggerimenti dei miei fratelli che così completavano, in maniera più corretta, i miei ricordi.

Il più bel ricordo però per me e per quella età, fu certamente la scuola che frequentavo e che avevano frequentato anche i miei fratelli più grandi, la “Giacomo Leopardi” della quale, a distanza di sessantasette anni dalla mia frequentazione, la ricordo come se fosse oggi, in tutti i suoi aspetti e dettagli e che sono ricordi indelebili per me. Dalle scale dell’entrata in pietra di piperno, dalla statua di Giacomo Leopardi posta a sinistra appena si entrava, lo scalone che portava al piano superiore, al corridoio di destra con le aule disposte sul lato sinistro di questo corridoio con le loro porte di colore bianco e l’oblò di vetro posto ad altezza d’uomo sulla porta stessa dal quale, il direttore professore Gennaro Palumbo, detto “capa e puorco” nelle sue peregrinazioni per il corridoio, sbirciava nelle aule per assicurarsi che tutto andava bene. Altro ricordo è la sala cinematografica-refettorio posta sempre nello stesso corridoio ma sul lato destro subito dopo la curva, dove io ed alcuni miei coetanei di quinta ci esibimmo, al conseguimento della licenza della quinta classe, in canzoni del regime e canzonette comiche. I servizi igienici erano posti alla fine di questo corridoio e che il capo bidello, di quell’epoca, era il signor Giuseppe Sambri e che aveva un figlio, Mario, che frequentava la mia stessa classe. Poi c’era la direzione e la segreteria che si trovavano, sempre sullo stesso piano, entrando a destra dopo un cancelletto di ferro. C’era inoltre, sullo stesso piano, lo stanzino del bidello che si trovava prima del corridoio.

Ricordo con molto piacere i miei insegnanti, con i quali avevo un buon rapporto perché ero un ragazzo studioso e quasi tranquillo. I loro nomi nell’ordine di classe frequentata sono: professori Ricciuto, De Benedittis, Di Stefano (per due anni) ed infine il professore Mario Machina che abitava proprio di fronte alla scuola nel rione detto “sotto le colonne”. Però in quell’epoca l’insegnante che più colpiva la nostra fantasia era il professore Cirulli il quale, oltre ad avere un portamento da vero signore, senza offesa per gli altri, ci colpiva il suo parlare, noi dicevamo diverso, perché forse era settentrionale, e per le sue immancabili ghette che portava sopra le scarpe alternandole nel colore grigio o beige. Quello che ricordo con non molto piacere, sono le bacchettate che alcuni professori propinavano agli alunni per qualche piccola mancanza, bacchettate che si prendevano sul palmo della mano quando ti andava bene, ma anche sul dorso della mano da qualche professore più severo che si accaniva a pestarti le nocche da farti piangere per il dolore. Quando non usavano il righello, adoperavano i nostri portapenne in legno. Era veramente una cosa barbara e inumana, considerando la nostra giovane età. Altro ricordo non altrettanto bello era quando, anche per motivi futili, come parlare in classe o non imparare bene le tabelline, era quello di punirti mettendoti in ginocchio sul granoturco, dietro una lavagna che si trovava a sinistra della scala che portava ai piani superiori, con grande sofferenza sia fisica che morale perché in quella posizione, ognuno che passava ti vedeva e faceva commenti. Perciò oggi, visto che non ci sono più queste torture corporali da barbara usanza, dico agli alunni di non lamentarsi quando l’insegnante li mette fuori dall’aula per atteggiamento indisciplinato e che è ben diverso da quel tipo di punizione. Certo non si generalizza e non si colpevolizza tutta la classe insegnante dell’epoca, però era indubbiamente un costume in auge per quel tempo. Bisogna anche dire che ogni tanto ci addolcivano la bocca distribuendoci una fettina di pane con una “cotognata” che era una marmellata a panetti e qualche cucchiaio di olio di fegato di merluzzo (che sofferenza a bere quell’olio!) che ci veniva propinato dicendo che serviva a farci crescere forti e intelligenti per il regime. Questa distribuzione non era sistematica ma saltuaria.